il Festival della Fotografia Etica a Lodi

Alla sua settima edizione, questo Festival, organizzato “con logiche di volontariato culturale” dal locale gruppo fotografico “Progetto immagine”, è diventato sempre più importante. Lo scorso anno ha raggiunto le novemila presenze e adesso, con un weekend in più di apertura, si appresta probabilmente a superare abbondantemente questo record.

Via via negli anni sono aumentati i fotografi espositori, spesso di fama mondiale, le locations e la corposità dei progetti.

Perfetta organizzazione (con il biglietto di ingresso del costo di 12 euro e il relativo braccialetto si può tornare durante tutti i weekend di apertura) e un ricchissimo programma di approfondimenti e incontri con i fotografi.

Diciotto mostre (anche qui come a Savignano, quasi che questo numero sia un limite scientificamente provato dell’umana possibilità di reggere tanta emozione tutta insieme) divise su sette bellissime sedi espositive nel grazioso centro storico di Lodi, e in sei diverse aree tematiche (le vite degli altri, spazio ONG, uno sguardo sul mondo, spazio approfondimento, word report award, premio Voglino).

Vale davvero la pena di raccontarle tutte queste mostre, perché così si abbraccia tutto il mondo con un colpo d’occhio. Tralasciando i nomi dei fotografi e i titoli esatti dei progetti, che si possono trovare sul ricco sito web, preferisco dare una breve descrizione di quello che mi è rimasto, raggruppando le mostre con un criterio geografico… banale lo so, ma che mi ha aiutato a memorizzarle.

Si parte dalla Russia. Con il maggior numero di mostre, ben quattro, la Russia, già incontrata a Savignano, per vastità ed eterogeneità di situazioni sembra essere la nuova frontiera del fotogiornalismo.

La prima mostra che visito, e una di quelle che mi è piaciuta di più, è su Norilsk, città del Nord fondata negli anni ’30 che è stata un gulag fino al 1956. Oggi città mineraria, in un’area di 30 km di diametro fra le più inquinate del pianeta, in mezzo alla tundra con notti che durano mesi e temperature minime che arrivano a cinquanta gradi sotto zero. Speranza di vita di dieci anni di meno che nel resto della Russia. Intense foto a colori che raccontano come gli abitanti sopravvivono, e i mezzi che usano nel loro quotidiano per combattere le condizioni di vita davvero avverse.

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Elena Chernyshova – Days of Nights – Nights of Days

 

Poi un racconto di Greenpeace sul popolo Komi, che vive dell’allevamento delle renne ai margini dell’Artide. La popolazione è sempre più minacciata dall’inquinamento dell’industria petrolifera e dai rifiuti industriali. Immagini di grandi dimensioni sulla convivenza tra uomini e renne, molto belle, con una scelta compositiva suggestiva, con primi piani sfocati e sfondi ricchi di dettagli.

Ha vinto lo Spot Light Award il racconto in un bianco nero un po’ fosco su una comunità nascosta chiamata Isola della Salvezza, un centro spirituale, educativo, culturale, fondato negli anni novanta da un prete ortodosso. Ospita circa 300 ragazzi e ragazze che vivono senza tecnologia, senza denaro, coltivando la terra, studiando, facendo sport e rispettando i dettami del Vangelo.

Infine le immagini dalla festa nazionale del 9 maggio, Den’ Pobedy che celebra la vittoria sui nazisti nel 1945. Una bella carrellata delle parate e delle persone che vi assistono. Mi è piaciuta la scelta di desaturare i colori… rende l’idea dell’aria fredda (sia in senso letterale che metaforico) e della ritualità un po’ asettica di quei momenti.

Dal Sudamerica tre progetti: uno dal Brasile e uno dall’Honduras, molto forti e crudi, in cui i fotografi hanno messo a repentaglio la loro sicurezza personale, riprendendo episodi di violenza e criminalità nelle rispettive periferie cittadine. Mi hanno colpito di meno, forse per un distacco difensivo, forse anche perché cose già viste e note. Segnalo però una fotografia che mi è piaciuta molto: bianco e nero con chiari e scuri molto contrastati, retata in un bordello in Honduras… il fotografo riprende da vicinissimo le mani appoggiate alla parete, dei clienti rastrellati e messi faccia al muro. Un neon illumina la scena e il muro scrostato. Bella bella.

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Javier Arcenillas – Latidoamerica

 

La terza mostra viene dalla Foresta Amazzonica, poche immagini ma suggestive, con didascalie molto interessanti sulla popolazione indigena degli Yanomami, e sul delicato equilibrio delle loro vite, in totale isolamento e armonia con la natura. Minacciati costantemente dagli interessi economici in gioco nell’Amazzonia.

Stati Uniti… beh quello per me è il luogo del mito, quindi il mio interesse su questi progetti è decisamente di parte. Comunque in tutti e tre i lavori ho potuto ammirare come la scelta stilistica fosse completamente coerente con il messaggio che si voleva trasmettere.

Dai bianchi e neri molto contrastati, forse addirittura trattati in HDR sulla campagna elettorale, dove Clinton e Trump sono delle caricature di se stessi, alla pateticità degli ultimi affiliati del Ku Klux Klan, tra barbecue rabberciati e croci bruciate in mezzo a sedie a dondolo di plastica fino alla bellezza… questa sì finalmente, dei nativi superstiti della tribù degli Oglala Lakota, che vive nelle vicinanze del Wonded Knee Creek (dove ci fu uno dei più famosi massacri delle tribù indiane) nella riserva di Pine Ridge, nel Sud Dakota. Fotografie che evidenziano tutte le difficoltà, la povertà e i soprusi che ancora oggi questa gente subisce, ma che riescono comunque a trasmettere tutta la bellezza e fierezza di quei luoghi e di quei volti.

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Aaron Huey – Mitakuye Oyasin

 

Dal Medio Oriente, tre mostre bellissime. Varrebbe la pena di andare al festival anche solo per queste tre.
La guerra in Siria, vista attraverso le emozioni dei bambini che di sera vanno a dormire nei posti più impensati durante le fughe delle loro famiglie: sguardi che restituiscono tutto l’orrore e la paura di questa assurdità.

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Magnus Wenmann – Where the children sleep

 

Ancora bambini, ancora fuggiaschi. In Libano dove a chi ha meno di sedici anni non vengono chiesti i documenti. La mostra racconta quindi di questi bambini che vanno a lavorare nei cantieri edili e in altre industrie per mantenere i loro famigliari immigrati irregolari senza documenti, che restano nascosti.
E infine la short story sulle ragazza detenute in carcere in Iran, che, per i delitti più gravi, sono in attesa della pena di morte che sarà eseguita al compimento dei diciotto anni. Una decina di fotografie delicatissime.

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Sadegh Souri – Waiting Girls

 

Poi, le ultime cinque mostre, in ordine casuale sparso.

Vince il Master Award un vasto reportage sulla Repubblica Centro Africana, il secondo paese meno sviluppato nel mondo (ONU 2014) devastato da guerra civile, malattie e totale disorganizzazione statale. Nel racconto che accompagna le bellissime immagini, emerge la preziosa attività di Medici Senza Frontiere.

E ancora, le banlieue parigine, anche qui forse immagini un po’ già viste, forse più per via del cinema che della fotografia, ma molto apprezzabili per come il fotografo si è avvicinato ai soggetti e ha potuto fotografare momenti molto intimi. A differenza del cinema in effetti qui è tutto vero.

Senza una collocazione geografica precisa invece il progetto sui paradisi fiscali. Di questi luoghi sparsi per tutto il mondo, cita la nota introduttiva, si parla molto ma non si sono mai viste molte immagini. E così gli autori sono entrati nelle vite di alcuni protagonisti e hanno documentato la loro vita professionale e personale ai margini della legalità, immersi nel lusso. Sensazione stridente l’accostamento di queste fotografie a tutti gli altri reportage del Festival. Un contrasto, ad occhio e croce, voluto.

Si finisce con il progetto geograficamente più lontano, sugli Ainu, un’etnia da poco riconosciuta distinta dai Giapponesi, che abita nel nord del Giappone. Il progetto documenta i tratti somatici e gli abiti tradizionali, in breve una dichiarazione di esistenza di questa gente.

E si finisce davvero con il progetto emotivamente più vicino, non collocabile nella mappa del mondo, perché comune a tutto il mondo. Il racconto fotografico da parte di una figlia, sugli ultimi mesi di vita dei suoi genitori, entrambi ammalati di cancro.

Direi che il Festival della Fotografia Etica di Lodi è un’esperienza da fare, non solo per chi si interessa di fotografia… e non lascia scampo alle coscienze.

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